Mi capitò di ascoltare per la prima volta Jason Molina quando anni fa venne a Roma per il tour di Ghost Tropic. Ero stato invitato a quella serata da un amico per ascoltare “i” Songs:Ohia; entriamo in un anonimo live club, tavolini sparsi a caso, davanti un piccolo palco, un amplificatore, un microfono, una chitarra acustica… non fu difficile intuire che quel concerto si prospettava diverso dalle solite cavalcate noise a cui eravamo abituati. All’interno del piccolo locale scopriamo stupiti che Songs:ohia non era un nuovo gruppo indie-rock, ma il progetto solista di un eclettico song writer statunitense.
Tra fumo, brusio di fondo e rumori di bicchieri prendiamo posto a pochi metri dal palco, vediamo salire un ragazzotto sbarbato, t-shirt nera e cappellino da baseball calato sugli occhi; parte la base ritmica di un campionatore, Jason Molina è piegato sulla chitarra, pochi movimenti, note scarne e minimali accompagnano una voce profonda di un’intensità straordinaria. Le atmosfere rarefatte di The Ocean’s Nerve pervadono gli angusti spazi del piccolo locale, cala un silenzio irreale…
La rappresentazione live di Ghost Tropic ricalca fedelmente le linee di un disco inquieto e rarefatto, figlio di un approccio lo-fi tanto in voga in quel periodo che tuttavia risulta essere in queste forme originale e personalissimo, con quella sua continua contaminazione tra folk song e destrutturazione post rock; proprio quel post rock che sul finire degli anni 90 aveva abolito quasi completamente l’utilizzo della voce. Jason Molina in Ghost Tropic miscela il meglio del folk inquieto alla Nick Drake e delle atmosfere new-acustic per confezionare un lavoro solitario, dolente e terribilmente affascinante.
Lo scorso anno sul sito di un megazine musicale leggo della prematura morte di Molina, una breve notizia scarna e poco visibile …come tanti dei suoi lavori. Quel concerto a Roma si concluderà dopo circa un’ora… nessuna parola da parte sua oltre quelle, poche, delle sue incantevoli canzoni. Mi rimane di quella serata un bellissimo disco a cui dedico ascolti attenti e dilatati nel tempo e il retrogusto amaro di non poter ripetere l’esperienza.