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Società Anonima Cementi
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Società Anonima Cementi

Settembre 25th, 2013 Federico Cropani Ambiente, Politica e attualità 5 comments

[heading style=”subheader”]L’impianto Italcementi di Civitavecchia tra speculazione ed archeologia industriale[/heading]

La storia ha inizio nella Belle Époque ed ha il sapore un po’ noir di certi film di Brian De Palma.

Nel 1896 la Società Anonima Fabbrica Calce e Cementi di Casale Monferrato, nell’intento di ampliare la sua rete di impianti di produzione, localizzò nella zona di Civitavecchia importanti giacimenti di calcare, particolarmente adatti alla produzione di cemento Portland artificiale. Civitavecchia venne scelta per la sua posizione centrale, la vicinanza con Roma, già collegata con la ferrovia, e soprattutto per la possibilità del trasporto via mare.

L’impianto sorse su un’area di 36.000 metri quadri, che si estendeva a monte della “scesa di Caterinaccia”, acquisita dalla Marchesa Cabrini. Presso tale area durante i lavori di costruzione fu anche rinvenuto un’interessante giacimento calcareo.

La costruzione della cementiera ebbe un costo pari a Lire 530.000, attualmente circa 2.2 milioni di Euro, e l’impianto si rivelò fin da subito capace di produrre fino a 25.000 tonnellate annue di leganti.

Nel 1918 dalla fusione tra Società Italiana dei Cementi e delle Calci Idrauliche di Bergamo, principale concorrente dotato di impianti di produzione con tecnologie innovative per l’epoca, e la stessa Società Anonima Fabbrica Calce e Cementi nacque il Gruppo Italcementi.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, la produzione si arresta.

Nel 1944, con l’arrivo degli anglo-americani, gli operai tornati alla fabbrica si prodigarono in un intenso lavoro per la riattivazione della produzione: già dopo poco più di un mese, il cementificio di Civitavecchia era nuovamente in funzione.

Il 1959 fu un anno caldo per la storia delle relazioni sindacali della cementiera, a causa di una politica di progressiva riduzione occupazionale operata dalla dirigenza. Allora si contavano più di 465 operatori.

La fabbrica rimase un’importante realtà produttiva per tutto il corso degli anni Sessanta e Settanta, diventando uno degli impianti fondamentali nella produzione del cemento bianco. Con la ristrutturazione aziendale del 1982 e l’espansione della Società nei mercati esteri, si avvia invece la progressiva dimissione dell’impianto.

Tra il 1992 e il 1995 gli altoforni saranno progressivamente spenti, lasciando attiva solo la macinazione: L’intero processo produttivo viene quindi trasferito a Izmir (Turchia) sul mar Egeo.

Nel 2000 chiuderà anche la macinazione, rimanendo attivo il solo stoccaggio di pochissime merci.

La dismissione

La dismissione dell’impianto è oramai matura nel 2004.

Il 23 giugno di quell’anno, l’allora Sindaco Alessio De Sio firmò un protocollo di accordo con Italcementi che prevedeva:

“l’acquisto dell’area per 22 milioni di Euro, tramite la costituzione di una Società di Trasformazione Urbana, che avrebbe goduto di ingenti finanziamenti del Ministero delle Infrastrutture, e al cui interno sarebbe entrata come Socio l’Autorità Portuale, la quale interessata al progetto rilanciò l’idea di spostare in quella zona la stazione FS per avvicinarla allo scalo portuale in crescita.” (cit. Alessio De Sio)

Il protocollo, con validità di sei anni, prevedeva la delocalizzazione del Centro di Macinazione/Distribuzione a favore della concessione di un’area demaniale marittima di circa 9.600 mq, con accesso a uso diretto di banchina per l’attracco di navi idonee all’attività, e la realizzazione di una palazzina idonea ad ospitare le 65 famiglie residenti nelle “Casermette”.

A gennaio del 2009, un secondo accordo, sottoscritto dall’allora Sindaco Giovanni Moscherini mutava però direzione:

“è stato rescisso ufficialmente il precedente protocollo stipulato a causa della difficile situazione finanziaria del Pincio […] l’area sarà interamente riqualificata, con il coordinamento del Comune. Il progetto prevede la demolizione dell’intero stabilimento e la realizzazione di due grattacieli dove verranno raccolti gli uffici comunali. Uno sarà alto 120 m, l’altro raggiungerà i 150 m. Il tutto circondato da un grande polmone verde: un grande parco al centro della città ed a disposizione dei cittadini. Il costo complessivo delle opere è stimato intorno ai 200 milioni di Euro.” (cit. Giovanni Moscherini)

Ed arriviamo ad oggi. Nessuno degli accordi sottoscritti è stato portato a termine, né tanto meno avviato, e dal dicembre 2009 il Gruppo Italcementi ha chiuso la struttura anche per lo stoccaggio e fatto recapitare lettere di sfratto per le famiglie degli operai ospitate presse le abitazioni delle “Casermette”.

Dal settembre 2012 la cementiera è stata inserita nell’elenco regionale dei siti sottoposti a procedure di bonifica; il Gruppo Italcementi, di concerto con le Autorità competenti, ha iniziato la messa in sicurezza degli elementi costruttivi in cemento-amianto. Infatti il T.U. sull’Ambiente (D.Lgs 152/2006) alla Parte Quarta, Capo Quinto, Titolo Quinto (artt. 239-253) stabilisce che è compito di Italcementi, in quanto responsabile dell’inquinamento, provvedere alla caratterizzazione del sito e al ripristino delle aree allo stato precedente la contaminazione.

La proposta Tidei

Il 5 aprile 2013 l’Amministrazione Tidei decide di firmare un nuovo protocollo d’intesa con Italcementi sulla base della semplice non attuazione dei precedenti e stabilisce i termini del nuovo accordo:

“la cessione dell’area con gli oneri di acquisizione a carico dei soggetti attuatori delle previsioni di Piano e delle opere che saranno realizzate sulle aree di Porta Tarquinia anche con le procedure di project financing; la riqualificazione dell’ex stabilimento industriale italcementi e dell’adiacente area denominata “Poligono del Genio” attraverso la redazione di un programma Integrato ai sensi della L.R. 22/97; prevedere un mix di funzioni autopropulsive alla rigenerazione del compendio, pur razionalizzando i volumi oggi esistenti su tale area e/o quelli previsti nelle scritture precedenti.”

In sostanza l’A.C. prevede l’edificazione di nuovi 300.000 metri cubi sull’area di cui il 30% da cedere come parte pubblica al Comune, a fronte della demolizione degli attuali 600.000 metri cubi dell’intera cementiera.

[heading style=”subheader”]Demolire o valorizzare[/heading]

Come tutte le attività industriali, porto ed Enel compresi, anche questa fabbrica ha avuto un impatto ambientale notevole. La finissima polvere residua e la dispersione di fibra d’amianto rimangono elementi con cui gli abitanti di Civitavecchia, in particolare quelli residenti vicino allo stabilimento, hanno dovuto fare tristemente i conti. La bonifica del sito è pertanto certamente un dovere di Italcementi, come prescritto dalla Legge, ma è allo stesso tempo opportuno riflettere sulle possibilità che la restituzione di quest’area alla città può comportare.

La cementiera più importante d’Italia è un esempio di come la costruzione industriale abbia incontrato l’architettura organica. Nelle strutture più vecchie, quelle risalenti alla Belle Époque, sono riconoscibili strutture portanti dalle forme di piante, fiori e animali marini. Il porto e il mare così vicini sono ben visibili nei grandi oblò o nelle volte a “coperta di nave” che compongono i volumi. A tutti gli effetti, compresa la teleferica di collegamento alla cava di Sassicari, lo stabilimento è una testimonianza di quello che oggi si definisce archeologia industriale.

Pensare di abbattere l’intero stabilimento, distruggendo quello che il bombardamento non ha fatto, cancellando l’ultimo nesso forte (anche i silos al porto lo erano) con la cultura di questa città, per favorire una nuova edificazione residenziale per privati, come tante altre se ne è viste in città, è un progetto miope.

Abbiamo l’occasione di ricucire col passato, dimostrare l’amore per il territorio e la volontà di migliorare il contesto in cui viviamo, non soltanto attraverso la costruzione di nuovi edifici ma, prima di tutto, riconoscendo e recuperando le risorse già presenti in loco. La cementiera deve essere considerata emblema dell’architettura industriale storica di un territorio che ha tratto la sua maggiore ricchezza proprio da questo settore, proponendo un’idea di vera e propria contaminazione culturale, che trasformi un complesso industriale abbandonato e in stato di degrado in un fulcro per la crescita culturale della città di Civitavecchia.

La cementiera è una struttura collocata in piena centro, direttamente collegata ad infrastrutture importanti, quali la ferrovia Roma-Torino (cui è collegata attraverso un raccordo privato) e le strade provinciali SP3a/SP7b. Strategica è poi la vicinanza con il Varco Vespucci, ingresso principale del Porto.

La proposta di protocollo che la Giunta Tidei si appresta a far approvare al Consiglio Comunale risulta pericolosamente debole. A queste condizioni qualsiasi privato e/o associazione temporanea d’imprese correrebbe per realizzare una edificazione al fine di speculare sulla città, pur ricordando che oltre il 70% degli appartamenti costruiti negli ultimi cinque anni è ancora invenduto o sfitto.

Per ulteriori informazioni sulla storia della cementiera è possibile leggere l’articolo su Cantiere d’Architettura.

 Foto di Fulvio Floccari

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Federico Cropani

Laureando in architettura, storico e blogger.

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5 Comments

  1. Luciano Damiani
    25 Settembre 2013 at 16:42

    Il cementificio fa parte della l’identità della città, come il Forte Michelangelo o la Rocca.
    Abbatterlo sarebbe come cancellare un pezzo di cervello dalla sezione “identificazione”.

  2. giggi
    25 Settembre 2013 at 16:50

    SEMPRE ESEMPLARE IL CROPANI ……………..BRAVO…

  3. Massimiliano
    26 Settembre 2013 at 6:12

    Ottimo! Proposte?

    1. Federico Cropani
      26 Settembre 2013 at 9:34

      terminare la bonifica come Legge prescrive, disinnescare la bomba ambientale; certamente lo stabilimento non può rimanere così. Terminata questa operazione, mio pensiero, sono per un “concorso d’idee” aperto a studenti e professionisti su base internazionale ripercorrendo un po’ quelli che sono stati gli iter di riqualificazione di vecchi siti industriali spari un po’ per tutta Europa. Il fine pubblico e la conservazione del patrimonio come fonte di nuova architettura è il punto da cui partire per elaborare un’idea. Io immagino la stazione riattivata, un grosso parco che aggredisce i volumi, le ciminiere divenire un “mirador”, la teleferica riattivata (e quindi c’è tutta il discorso del belvedere a Sassicari e del percorso naturalistico-storico nella Fiumaretta); nelle strutture principali, cinema, teatri, sale di musica, e poi alloggi con atelier annessi, spazi espositivi, musei, laboratori d’arte, ecc. Un esempio tra tutti: l’ex Zeche Zollverein di Essen, masterplan dello studio OMA di Rem Koolhaas, e progettisti della riconversione sono Büro Böll & Krabbel e Norman Foster.

  4. razao
    26 Settembre 2013 at 8:56

    A suo tempo, qualche mese fa su FB, avevo ,da ignorante in materia proposto l’istituzione di un parco culturale, m’hanno dato del matto……

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